Fonte:IlGiornale 4 Aprile 2022 di Daniele Dell’Orco

Gli esponenti del Partito Democratico alla vigilia delle elezioni in Ungheria speravano che il leader magiaro potesse essere insidiato dopo 12 anni, ma già da settimane la sua vittoria era scontata

Nelle ore immediatamente precedenti all’elezione parlamentare in Ungheria di ieri, media, politici, commentatori di mezza Europa si sono compattati attorno alla retorica creata dall’hashtag #OrbanOut.

La tornata che avrebbe dovuto mettere in discussione il leader di Fidesz dopo 3 mandati, è stata caratterizzata dalla necessità da parte dei suoi oppositori di concorrere uniti, componendo una coalizione, capitanata dal (pur cattolico e conservatore anche se pro-Ue) Peter Marki-Zay. Un minestrone capace di mettere insieme la destra radicale di Jobbik e la sinistra ultra-progressista, più altre sigle di vario stampo (verdi, liberali, popolari). Negli ultimi mesi in effetti il clima in Ungheria sembrava stesse cambiando, e una larga coalizione capace di convogliare l’attenzione dei cittadini su sentimenti pro o contro Orban aveva seriamente fatto tentennare le certezze dei supporter di Fidesz. Qualche sondaggio non proprio accurato, poi, come siamo abituati a vederne da anni in Occidente, ha fatto il resto, tanto da foraggiare anche in Italia una fronda convinta che l’epopea di Orban fosse giunta al capolinea.

Laura Boldrini ieri aveva twittato: “Ha cancellato l’autonomia della magistratura, introdotto il reato di solidarietà, azzerato i media indipendenti e calpestato i diritti civili. Questo è Orban, da 12 anni al potere in Ungheria. Oggi il voto può chiudere una fase di oscurantismo nel cuore dell’Ue”. E il segretario del suo partito, il Pd, Enrico Letta, le aveva fatto eco con un cinguettio più da tifoso che da politico: “Col fiato sospeso oggi, sperando in un miracolo nelle urne #OrbanOut”.
Se qualcuno pensa che possa trattarsi di qualche originale idea dei politici nostrani o del frutto di accurate analisi elettorali, sarà costretto a cambiare idea immediatamente. Basta guardare il tweet del 1 aprile di Hillary Clinton (“L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin sottolinea la necessità di combattere l’autocrazia e difendere società libere e democratiche. Le elezioni ungheresi del 3 aprile sono l’occasione per riaffermare la democrazia. Ungheresi in Ungheria, negli Stati Uniti e altrove: andate a votare!”) per comprendere come Boldrini, Letta & Co. si siano solo accodati alla principessa della linea politica liberal d’Oltreoceano. Che peraltro quando fa previsioni non ci becca mai. Varie testate giornalistiche in Italia, da Il Post al Messaggero, da RaiNews a diversi portali di politica estera, avevano poi calato l’asso parlando di Orban “in bilico”.
Nessuno di loro, però, come accade puntualmente da tempo, ha fatto i conti con la realtà, e cioè che il dossier della guerra in Ucraina che ha monopolizzato il dibattito politico in Ungheria nell’ultimo mese e mezzo ha fatto da volano per Fidesz anziché tagliare le gambe a Orban.
Praticamente più nessun sondaggio politico indipendente in Ungheria metteva in dubbio la vittoria di Fidesz alla vigilia, e praticamente nessun analista serio avrebbe potuto temere una sconfitta. Semmai, anche i più prudenti, sono rimasti sì sorpresi, ma dalla forbice bulgara che ha separato Orban da Marki-Zay, visto che superare il 50% dei consensi di fronte a un’opposizione unita che a sua volta è stata erosa da partitini che non sarebbero dovuti nemmeno entrare in Parlamento (lo sbarramento è al 5%) e che invece hanno messo insieme quasi l’11% totale) vuol dire avere davvero poca concorrenza.

Infine, una nota indicativa di quanto, a prescindere dal consenso plebiscitario di Orban, in Ungheria la sinistra non riesca ad offrire piattaforme credibili nemmeno al cospetto dei propri elettori. Basta guardare il risultato del referendum che si svolgeva insieme alle elezioni politiche. Si tratta del contestatissimo “referendum anti-LGBT” basato su 4 quesiti attraverso i quali agli elettori è stato chiesto di esprimersi sulla legislazione che limita l’insegnamento nelle scuole dell’educazione sessuale, oltre a vietare il cambio di genere per i minori e la “promozione” dell’omosessualità in tv e sulle piattaforme multimediali.

Sebbene abbiano accettato le schede quasi il 70% degli aventi diritto, per essere vincolante il risultato del referendum avrebbe dovuto avere, tra questi, almeno il 50% del voti validi. Invece, la linea degli oppositori a Fidesz di annullare le schede è passata dal momento che il 56% dei votanti non ha espresso un voto valido.
Cosa significa questo? Che anche tra elettori che non approvano totalmente le battaglie sui diritti civili del governo c’è chi preferisce comunque votare per Orban e bocciare esperimenti politici improbabili nati non per garantire stabilità, governabilità e difesa dell’interesse nazionale al Paese magiaro bensì dal sentimento dell’#OrbanOut che piace alla sinistra di mezzo mondo. Ma evidentemente agli ungheresi no.

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