Estratto dall’articolo di Pietro De Leo per IlTempo.it

Ancora oggi, un tragico caso di scuola a segnare il senso dello “stigma” dell’avviso di garanzia. Ovvero il ricordo della tragica fine del deputato del Partito Socialista Italiano Sergio Moroni, nel settembre di trentuno anni fa, suicida dopo aver ricevuto due comunicazioni di indagine a suo carico. Si era in piena Tangentopoli e l’innesco di tanti cortocircuiti mediatico-giudiziari avrebbe dato il senso di quel che, da lì in avanti sarebbe stata la fenditura della nostra democrazia. La scorciatoia politica mediante atti giudiziari, innescando la miccia moralistica nell’opinione pubblica, nel tentativo di rendere gli italiani un popolo di tricoteues, usi ad assistere alle sofferenze del ghigliottinato di turno. E quell’atto, l’avviso di garanzia appunto, da elemento a tutela dell’indagato veniva posto sul ventilatore mediatico-politico, per quanto anche insigni giuristi si fossero sforzati di sottolineare quanto ciò fosse sbagliato.

Nel 1992, per esempio, il vicepresidente del Csm del tempo, Giovanni Galloni, ebbe a dire: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio». Un principio di cui, per trent’anni, abbiamo visto applicato l’esatto contrario, indipendentemente poi dal corso che potesse prendere l’iter giudiziario. Nel novembre 1994, Silvio Berlusconi presiedeva un vertice internazionale sulla criminalità organizzata a Napoli, da capo del governo, quando venne a conoscenza attraverso la stampa di un avviso di garanzia a suo carico. Quella circostanza scatenò una tale catena di tensioni, in una maggioranza già debole di suo, che poi portarono alla caduta dell’Esecutivo. L’avviso di garanzia riguardava un’indagine per presunte tangenti alla Guardia di Finanza. Si arrivò a processo, finito con un’assoluzione nel 2001, «per non aver commesso il fatto».

Ma intanto un governo era stato disarcionato. Altro caso dirompente è quello del gennaio 2008: si dimette Clemente Mastella, allora ministro della giustizia del governo Prodi, a seguito di un accusa di concorso esterno in associazione a delinquere dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. Nove anni dopo fu assolto dalle accuse. Queste sono soltanto alcune fattispecie da esempio che, collegando l’oggi allo ieri, possono pienamente motivare quanto constatato dal ministero della Giustizia, ovvero la necessità di assicurare la riservatezza dell’avviso di garanzia, «tutelando l’onore di ogni cittadino presunto innocente sino a condanna definitiva». Così come appaiono pienamente motivati gli altri interventi messi in cantiere con la prima tranche della riforma della giustizia. Uno dei quali è, sicuramente, l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Un’iniziativa che prende corpo per sbloccare gli amministratori pubblici dalla «paura della firma» che fa incagliare il governo del territorio, specie a fronte della prassi, molto diffusa a livello locale, di presentare esposti in Procura contro il sindaco o l’assessore come forma di opposizione. Ingolfando i tribunali, spesso rovinando percorsi politici e soprattutto sparando a salve.

Dopo una prima riforma della fattispecie che si ebbe con il governo Conte, infatti, i numeri sull’abuso d’ufficio erano ancora questi: nel 2022 sono stati archiviati 3536 dei 3938 fascicoli aperti. Nel 2021 si ebbero solo 18 condanne. Insomma, un reato-tagliola politica, spesso foriero di dimissioni da parte diviene messo sotto inchiesta, ma ben poco utile a realizzare il senso autentico della giustizia. Un altro pilastro della riforma della giustizia che il governo ha in cantiere, e che dovrebbe arrivare a settembre, è la separazione delle carriere che Nordio ha più volte assicurato di voler portare in porto. Senza dimenticare ciò che è già stato fatto sul versante delle intercettazioni, con la prima stretta volta a tutelare le persone «terze» che vengono citate nelle conversazioni di altri. Ma è solo il primo passo. Il Guardasigilli ha assicurato che sarà garantita la segretezza di tutte le conversazioni, senza comunque compromettere le indagini sui crimini più gravi.

Riforma della giustizia, la politica rivendichi la propria autonomia

Articoli di Davide Vecchi

Escludo che a Palazzo Chigi qualcuno ritenga davvero l’indagine sul passato da imprenditore del ministro Daniela Santanché e il rinvio a giudizio coatto del sottosegretario Andrea Delmastro come attacco della magistratura al Governo. Perché se queste sono le armi delle procure per spingere l’esecutivo a desistere sulla riforma della giustizia, a Chigi possono dormire tranquilli. A mio avviso sono piccole difficoltà del percorso alle quali però mi auguro questo Governo dia il giusto peso. Da una parte mostrandosi fermo nel rivendicare – finalmente – l’autonomia della politica rispetto agli altri poteri democratici per cui se un qualsiasi componente dell’esecutivo è indagato nulla cambia; dall’altra proseguendo nel percorso di riforme avviato senza cedere di un millimetro. Perché questo è il momento ed è evidente a tutti quanto fondamentale e necessario sia mettere mano al sistema giudiziario italiano.

La scomparsa di Silvio Berlusconi deve segnare la fine del potere di condizionamento della magistratura sullo Stato. Un potere acquisito nel tempo, un potere scalato a cominciare dal 1992 quando con l’inizio di Tangentopoli un semplice avviso di garanzia diventava una condanna; a volte una condanna a morte: il suicidio di Sergio Moroni. Era il 2 settembre 1992. Il pool di Mani Pulite partorì l’ascesa politica di Antonio Di Pietro che sfruttò quel giustizialismo diffuso tanto da creare un partito e conquistare voti. Intanto nei tribunali molte super indagini delle procure si rivelavano vuote e inefficaci, molti politici e imprenditori massacrati tra intercettazioni, sequestri preventivi, arresti uscivano completamente assolti da anni di macelleria giudiziaria. Ma le assoluzioni non diventavano mai notizia anche perché le procure continuavano a macinare indagini su personaggi eccellenti, uno su tutti: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere è stato sul palcoscenico giuridico per così tanto tempo e talmente illuminato da distogliere l’attenzione sul circostante. Sulla scia di questo giustizialismo si è alimentato il Movimento 5 Stelle e il populismo che ha portato a conseguenze devastanti per il funzionamento stesso dello Stato fino al taglio dei parlamentari e al tetto agli stipendi dei dipendenti pubblici.

Riforme becere approvate persino da partiti come il Pd che hanno sacrificato la propria storia di valori e ideali per un passaggio su uno strapuntino al seguito del carro di un comico. Il risultato è oggi un Parlamento impossibilitato a lavorare a pieno regime (le commissioni sono per forza di cose quasi sempre deserte) e incapace di poter offrire ai tecnici migliori su piazza stipendi dignitosi da rendere il lavoro per lo Stato allettante rispetto a quello offerto da aziende private. A parte qualche raro caso di abnegazione per il servizio al Paese stiamo riempendo il pubblico di figure mediocri, non certo i migliori di cui invece dovremo dotarci e potremo dotarci. Tutto questo è ormai evidente e criticato anche dagli stessi che lo hanno ideato, voluto, realizzato. Questa maggioranza ha finalmente la forza e le capacità di tentare di correggere queste storture. Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia hanno dimostrato di saper trovare una sintesi su tutto ed è necessario ora trovarla sulla riforma della giustizia. La politica oggi deve e può ritrovare la propria autonomia rivendicando la con fermezza. Ciascuno faccia il proprio lavoro. Quello della politica e dei Governi è migliorare la vita dei propri cittadini anche semplificando le leggi e la giustizia. Ché magari diventi davvero uguale per tutti.

 

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