Estratto dall’articolo di Adalberto Signore per IlGiornale

Si è diviso l’Onu venerdì e si è divisa la politica italiana ieri. Riuscendo a risucchiare persino una tragedia come quella che si sta consumando da settimane in Medio oriente in una bagarre da talk show. Non certo perché non sia legittimo criticare la scelta dell’Italia di astenersi sulla risoluzione approvata tre giorni fa a New York dall’assemblea generale delle Nazioni Unite, quanto perché dai due leader dell’opposizione – Elly Schlein e Giuseppe Conte – ci si aspetterebbe sul punto un ragionamento quantomeno non sbrigativo. Per la segretaria del Pd, invece, il governo italiano ha fatto «un errore a non votare a favore di una tregua umanitaria», perché «questa strage va fermata». Mentre secondo il presidente del M5s «per la pace ci vogliono schiena dritta e coraggio» e «non la debolezza e la codardia di un esecutivo che con una decisione pilatesca dimostra di considerare la sofferenza dei civili un inevitabile effetto collaterale».

Purtroppo, però, c’è anche la politica. E sia Schlein che Conte, visto il ruolo che ricoprono, dovrebbero saperlo. Non è un caso che dei Paesi del G7 ben cinque abbiano deciso di astenersi (oltre all’Italia, anche Germania, Regno Unito, Canada e Giappone), uno abbia votato contro (gli Stati Uniti) e solo la Francia si sia espressa a favore. La scelta, dunque, si può legittimamente criticare, ma non certo perché pilatesca o perché dimostri disinteresse a porre fine alla tragedia umanitaria in corso nella Striscia di Gaza.

Ma andiamo con ordine.

La risoluzione – approvata con 120 sì, 14 no e 45 astensioni – è la prima presa di posizione formale del Palazzo di Vetro dopo l’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre che ha poi portato alla risposta militare israeliana. Ragione per cui si è cercato di portare in votazione un testo equilibrato, che tenesse conto delle evidenti e urgentissime ragioni umanitarie del popolo palestinese ma che non tralasciasse di condannare «l’attacco terroristico di Hamas». Il Canada aveva presentato un emendamento in questo senso, che non è però passato. Ha infatti ricevuto 85 voti a favore (compreso quello dell’Italia), 55 contrari e 23 astensioni, non ottenendo quindi la maggioranza dei due terzi richiesta. Il testo della risoluzione, dunque, è nella sostanza rimasto quello originariamente presentato dalla Giordania a nome degli Stati arabi. E non è un caso che Hamas – mai nominato nella risoluzione Onu – abbia «accolto con favore» la presa di posizione delle Nazioni Unite.

Insomma, si può essere legittimamente critici sulla scelta italiana di astenersi. Ma è disonesto rimuovere dal dibattito il gigantesco problema politico di una presa di posizione – la prima dell’Onu da quel disgraziato 7 ottobre – che evidentemente non è equidistante, peraltro in un momento in cui tutte le diplomazie sono al lavoro per una de-escalation. E che le Nazioni Unite – su richiesta dei Paesi arabi e con il plauso di Hamas – puntino pubblicamente il dito contro Israele certo non facilita la via diplomatica.

Di qui la scelta dell’astensione, addirittura del voto contrario di Washington. Che da giorni è in pressing su Tel Aviv per una tregua e l’apertura di corridoi umanitari. Perché è questo che lascia intendere John Kirby, portavoce del consiglio di sicurezza della Casa Bianca, quando dice che gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele «quali sono i suoi obiettivi, qual è la sua strategia e come tutto questo può finire». L’astensione, spiega dal canto suo Giorgia Meloni, «era la più equilibrata fra le posizioni possibili», e «non a caso è stata condivisa dalla gran parte dei Paesi europei e da quelli del G7». Sia il voto a favore, sia quello contrario – aggiunge la premier – avrebbero «spostato l’Italia rispetto alla posizione che sta tenendo» e che continua a guardare all’obiettivo ultimo dei «due popoli e due stati». Un «sì», è il senso del ragionamento di Meloni, sarebbe stato una presa di posizione contro Israele, perché – spiega il ministro degli Esteri Antonio Tajani – nella risoluzione «non c’era né la condanna di Hamas, né un riconoscimento della possibilità di Tel Aviv di difendersi». Allo stesso modo, un «no» avrebbe significato schierare l’Italia contro le ragioni dei palestinesi e la necessità di intervenire al più presto con l’apertura di corridoi umanitari verso la Striscia di Gaza. «Siamo concentrati nel tentare di frenare la crisi umanitaria che c’è a Gaza e sul tema della liberazione degli ostaggi», aggiunge Meloni. «Speriamo – conclude – ci possano essere novità, che a un certo punto pareva ci fossero. Sarebbero molto importanti per arrivare a una de-escalation».

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